Volkswagen. Das Kapital
La crisi della grande casa automobilistica tedesca non può essere vista semplicemente come una crisi aziendale: si tratta dell’epicentro di un sisma che sta travolgendo un intero modello produttivo e il suo connesso paradigma di mobilità
«Miracolo di Natale ad Hannover». Così l’IG Metall, il principale sindacato metalmeccanico tedesco, ha accolto l’accordo che ha posto fine a una tormentata fase di contrattazione aziendale in Volkswagen, apertasi nel settembre scorso con il recesso dell’azienda dal trentennale accordo di garanzia occupazionale, che avrebbe reso possibili i licenziamenti economici a partire dal luglio 2025. La trattativa, accompagnata dalla mobilitazione sindacale indetta da IG Metall, si è svolta durante una delle fasi più critiche della storia tedesca dall’unificazione a oggi, segnata dalla recessione economica e dalla crisi del governo Scholz e resa inquieta dall’ascesa irrefrenabile dell’estrema destra dell’AfD e dall’indecifrabile attentato di Magdeburgo.
Il rinnovo del contratto collettivo aziendale di Volkswagen si applica a circa 120 mila lavoratori impiegati in nove dei dieci stabilimenti del marchio in Germania: i cinque della Bassa Sassonia (tra cui il quartier generale di Wolfsburg con oltre 60 mila occupati), quello di Kassel in Assia e dal 2026 anche ai tre nella deindustrializzata Germania orientale (Chemnitz, Dresda e Zwickau). Resta escluso dal suo perimetro di applicazione solo il piccolo stabilimento di Osnabrück, in cui è invece applicato un contratto collettivo regionale. I sospiri di sollievo per il raggiungimento dell’accordo nella principale azienda del più grande datore di lavoro privato del paese (nel complesso il gruppo Volkswagen, che comprende anche Audi e Porsche, conta quasi 300.000 dipendenti in Germania), se comprensibili alla luce dello scenario nazionale, rischiano però di appannare la necessaria riflessione sulle ragioni della crisi del colosso dell’automotive e sui limiti della strategia sindacale.
La trattativa e la mobilitazione
Fin da settembre, alla minaccia dei licenziamenti collettivi si era unita l’espressa volontà dell’azienda di avviare la chiusura di almeno tre stabilimenti in Germania e di procedere a una riduzione del 10% della retribuzione e alla soppressione di alcuni bonus. A tali richieste, IG-Metall aveva reagito proponendo di destinare gli aumenti salariali del 2% e del 3% previsti rispettivamente per il 2025 e per il 2026 a un fondo di solidarietà per compensare future riduzioni di lavoro. A questo si era aggiunta la disponibilità del sindacato dei metalmeccanici ad accordare una rinuncia per due anni alle quote di partecipazione agli utili dovute ai dipendenti. In cambio di queste concessioni, il sindacato aveva chiesto all’azienda di rinunciare ai licenziamenti e ai tagli diretti della retribuzione, proponendo alternative per salvare i posti di lavoro.
Dal suo canto, il management aziendale non era sembrato disposto a mettere in discussione i dividendi per gli azionisti. «Lo stesso gruppo, pur registrando un calo dei profitti, ne ha realizzati per 12 miliardi negli ultimi 9 mesi. Un compromesso potrebbe quindi consistere solo in una rinuncia da parte di manager e azionisti, altrimenti la crisi verrebbe scaricata solo sui lavoratori» – ci aveva detto alla vigilia della mobilitazione Lars Hirsekorn, in Volkswagen da trent’anni e dal 2022 membro del Betriebsrat dello stabilimento di componentistica di Braunschweig, circa 7 mila occupati in Bassa Sassonia, il Land azionista del gruppo per un quinto.
Di fronte all’indisponibilità aziendale a discutere le proprie proposte, il sindacato ha quindi indetto una mobilitazione che, come nella migliore tradizione tedesca, ha previsto scioperi di breve durata ma con altissimi tassi di adesione. Appena scaduta la clausola di tregua sindacale, i lavoratori hanno fatto dunque ricorso allo strumento dello sciopero di avvertimento (Warnstreik), nei primi due lunedì di dicembre. Gli scioperi, il primo di due ore per turno e il secondo di quattro, indetti in concomitanza con le trattative in corso ad Hannover, hanno entrambi registrato l’astensione di circa 100 mila lavoratori.
Brevi ma con larga adesione, gli scioperi hanno dato i propri frutti. L’accordo raggiunto il 20 dicembre scorso ha anzitutto ristabilito la garanzia occupazionale fino alla fine del 2030, evitando così i licenziamenti collettivi, escludendo al tempo stesso la chiusura dei siti produttivi. L’accordo prevede poi che, in caso di mancata proroga alla scadenza della summenzionata clausola di garanzia, l’azienda dovrà corrispondere un miliardo di euro ai propri lavoratori. Sull’altro piatto della bilancia, l’accordo impone tuttavia l’eliminazione, entro il 2030 di ben 35 mila posti di lavoro in forme «socialmente responsabili» (sozialverträglich), essenzialmente tramite programmi d’incentivo all’esodo volontario e prepensionamenti. Il sindacato ha inoltre accettato la rinuncia alla partecipazione agli utili e ad altri bonus per il 2026 e il 2027, con una successiva e graduale riespansione fino al 2030. A questi tagli si aggiunge inoltre il dimezzamento delle posizioni per gli apprendisti: l’anno scorso ve ne erano 1.150 e l’intenzione della direzione era quella di ridurli a 400. Alla fine, nell’accordo se ne prevedono solo 650, ma viene almeno ristabilito l’obbligo di assunzione alla scadenza dell’apprendistato che Volkswagen avrebbe invece voluto cancellare.
I dipendenti Volkswagen rinunceranno infine, fino al 2031, agli aumenti retributivi previsti dal contratto collettivo nazionale metalmeccanico. Come da proposta sindacale, questa sospensione dell’aumento, oltre a scongiurare l’uscita dell’azienda dal contratto nazionale, servirà a destinare tali risorse al finanziamento di strumenti per gestire gli esuberi: misure di flessibilità interna, in particolare di tipo orario, e piani di prepensionamento. Una tale opzione verso la flessibilità interna è una costante tedesca: lo storico accordo del 1993, che pose fine a un’altra fase di crisi del gruppo, prevedeva la riduzione dell’orario di lavoro a 28,8 ore settimanali con annessa riduzione della retribuzione, ma a soluzioni simili si è fatto massiccio ricorso in altri settori anche nella fase post-crisi finanziaria del 2008. Si tratta di una scelta difficilmente riproducibile in altri paesi europei e che è resa possibile solo dal margine offerto dagli alti salari in Volkswagen.
Nonostante la soddisfazione con cui IG Metall e i suoi negoziatori hanno accolto l’accordo, non mancano però voci critiche nonché una diffusa sensazione, anche all’interno del sindacato, che si sarebbe potuto ottenere di più, specialmente in un’azienda come Volkswagen in cui il tasso sindacalizzazione supera il 90%. L’eliminazione dei licenziamenti e le temporanee garanzie ottenute sulle future produzioni dei siti non nascondono infatti una riduzione del salario reale e un taglio di 35 mila posti di lavoro previsto entro il 2030, equivalenti – nota ancora Hirsekorn nel commentare l’accordo – «non a tre fabbriche chiuse, ma a quasi quattro delle dimensioni dello stabilimento di Zwickau». Soprattutto, l’accordo asseconda la strategia manageriale di riduzione dei costi e di aumento della competitività degli stabilimenti tedeschi, senza rimettere in discussione le scelte produttive dell’azienda che hanno condotto alla situazione di crisi attuale.
Le ragioni della crisi
Complice la fase di profonda difficoltà che sta attraversando e che secondo alcuni potrebbe addirittura metterne a rischio la sopravvivenza, Volkswagen, la seconda casa automobilistica mondiale con oltre 5 milioni di auto vendute, tende ora a essere vista come il «grande malato» del settore automotive europeo. Si tratta di una visione fuorviante, perché se il gruppo con sede a Wolfsburg – che impiega oltre un terzo degli occupati nell’intero settore automotive tedesco che nel 2023 si attestavano a 780 mila – ha contratto qualche malattia, si tratta di un morbo di cui esso stesso è stato untore e che ha condotto alla crisi generalizzata – economica, sociale e ambientale – di tutta l’industria automobilistica continentale.
Il morbo in questione si chiama «upmarket drift» e negli ultimi anni è stato ben documentato, fra gli altri, da Tommaso Pardi, direttore del Geripisa e uno dei massimi esperti europei del settore automotive. Le ricerche di Pardi sulla questione, pubblicate anche in due working paper dell’Istituto sindacale europeo (Etui), mostrano come, sotto la pressione delle case automobilistiche «premium» tedesche e nordeuropee, Volkswagen in testa, le varie regolazioni europee sulla riduzione delle emissioni di CO₂, introducendo criteri che legavano i limiti di emissioni al peso dei veicoli, abbiano finito per favorire proprio quelle case automobilistiche che producono macchine più pesanti e potenti, e dunque anche più inquinanti.
Ciò ha spinto anche le case europee generaliste – come quelle italiane e francesi, ma anche Opel – a inseguire quelle tedesche sulla strada della «premiumizzazione» e della risoluzione per via esclusivamente tecnologica del problema delle emissioni, producendo nei loro paesi d’origine veicoli sempre meno accessibili e delocalizzando la produzione delle auto per il mercato di massa nei paesi dell’Est Europa o dell’Africa settentrionale. Non solo, l’aumento del peso e della potenza media dei veicoli venduti in Europa ha drasticamente ridotto l’impatto della regolazione sulle emissioni e, incidendo significativamente sul costo, ha amplificato il divario fra i paesi ricchi – dove il mercato ha continuato a crescere o è rimasto stabile – e quelli poveri – dove invece è diventato stagnante – favorendo la crescita del mercato dell’usato.
Ciononostante, l’accelerazione verso l’elettrificazione, decisa all’indomani del Dieselgate, ha conservato a livello regolativo il nesso fra peso e limiti delle emissioni, favorendo anche in questo caso la corsa ad accrescere l’autonomia e la potenza, e quindi anche il peso, delle batterie e dei motori elettrici, invece di puntare su un cambiamento del paradigma della mobilità, fondato sul rafforzamento del trasporto pubblico e sulla produzione di auto elettriche piccole, leggere, accessibili e con maggiore efficienza energetica per gli spostamenti quotidiani. In questo contesto, l’industria automotive europea si trova ora stretta nella morsa di un mercato bloccato a causa del prezzo esorbitante delle auto elettriche prodotte in Europa e della forte concorrenza di Tesla e sempre più delle case cinesi, rispetto alle quali l’unica soluzione trovata è stata quella dell’imposizione di dazi, osteggiati proprio dalla Germania per il timore di ritorsioni in grado di danneggiare il proprio export (la Cina rappresenta il principale mercato estero per le auto prodotte in Germania).
Per gli stabilimenti Volkswagen in Germania e per l’intero modello produttivo tedesco, fatali sono risultati, negli ultimi due anni, l’aumento dei costi energetici seguito all’invasione russa dell’Ucraina, la fine degli incentivi all’acquisto di auto elettriche decisa dal governo tedesco e il crollo delle vendite proprio in Cina, dove è stata scalzata dalla sua posizione di primato dall’autoctona BYD e dove il gruppo ha perso quote di mercato soprattutto nei segmenti premium e di lusso. Ma la strada che ha portato alla situazione attuale è stata segnata dalla scelta di assegnare in maniera quasi esclusiva agli stabilimenti tedeschi una strategia di export di prodotti ad alto valore aggiunto, e di delocalizzare la produzione dei modelli entry-level nei paesi con un costo del lavoro più basso. Basti pensare che nel 2022 era prodotto in Germania oltre il 90% dei modelli di lusso venduti dai marchi del gruppo, contro il 30% della classe Golf.
I dilemmi del sindacato
Efficace nel contrastare i licenziamenti e la chiusura delle fabbriche ma meno nel salvare i posti di lavoro, la mobilitazione di IG Metall potrebbe rivelarsi insufficiente sul lungo periodo in assenza di una strategia di più ampio respiro. «Gli scioperi – ha continuato infatti Hirsekorn – sono riusciti, ma manca comunque una prospettiva di lungo periodo da parte di IG Metall». A detta del sindacalista, infatti, il sindacato tedesco sembra concentrare i propri sforzi sulla difesa dell’industria automobilistica così com’è, accettando dunque come inevitabile la perdita di posti di lavoro. «Non ci sono idee per nuove produzioni. Personalmente preferirei una transizione alla produzione di tram, ma finora solo una piccola parte dell’IG Metall la sostiene. L’attuale crisi del gruppo e in generale del settore automotive in Europa è invece il momento ideale in cui chiedere un cambiamento nelle politiche della mobilità» – ha concluso Hirsekorn, che in Volkswagen è uno dei promotori di una campagna dal basso che propone una trasformazione in senso ecologicamente sostenibile della produzione.
La critica di Hirsekorn rispecchia la posizione ambivalente di IG Metall sulle questioni inerenti la transizione ecologica, posizione spiegabile a partire dal ruolo che tale sindacato gioca all’interno del sistema tedesco di relazioni industriali. Dopo aver osteggiato la regolazione europea delle emissioni carboniche nel settore dei trasporti, IG Metall ha abbandonato il suo iniziale scetticismo e scelto di supportare la transizione ecologica. Il sindacato ha da tempo avviato percorsi coalizionali con associazioni e movimenti ecologisti – dai Bund (Friends of the Earth Germany) ai Fridays for Future –, arrivando financo a elaborare un proprio piano per la mobilità sostenibile, che prevede una transizione dai veicoli multiuso individuali a una configurazione intermodale del sistema di trasporti in cui diversi mezzi – auto elettriche, autobus, tram, treni, bici – vengono combinati grazie allo sviluppo della digitalizzazione e della connettività.
Tale orientamento ecologista non è solo un tardivo tentativo di greenwashing, ma si riallaccia a una serie di esperienze del passato recente, come ha ricostruito Anne Katharina Keil. Negli anni Ottanta, infatti, IG Metall aveva iniziato a sostenere alcune iniziative a livello di fabbrica che, ispirandosi all’esperienza del Lucas Plan, avevano iniziato a dibattere di «produzioni alternative» finalizzate a ridurre l’impatto socio-ecologico. La crisi del mercato automotive aveva perfino condotto IG Metall a indire, nel 1990, una Conferenza sulla politica dei trasporti, avanzando proposte per una svolta socio-ecologica nel settore, in grado di coniugare la salvaguardia dei posti di lavoro con la produzione di prodotti socialmente utili ed ecologicamente sostenibili. Si tratta comunque di una posizione, come sostiene sempre Keil, che ha avuto scarse conseguenze in termini di azione sindacale nelle fabbriche ed è stata per di più mantenuta solo per un breve periodo, per poi essere abbandonata quando l’apertura di nuovi mercati e la svolta neoliberale hanno messo in secondo piano le considerazioni ecologiche.
Oggi, nelle aziende del settore automotive minacciate dalla transizione, IG Metall tende a far leva sulla sua forza associativa nonché sugli strumenti di cogestione aziendale (betriebliche Mitbestimmung) messi a disposizione dal suo particolare sistema di relazioni industriali, con l’obiettivo principale di ottenere garanzie occupazionali ed evitare licenziamenti collettivi. Il Consiglio d’azienda (Betriebsrat), ad esempio, gode di diritti d’informazione sui processi di ristrutturazione a livello di stabilimento e può negoziare misure a tutela dei lavoratori sia nella forma meno incisiva della riconciliazione di interessi (Interessenausgleich), sia attraverso la negoziazione di un piano sociale (Sozialplan), che può includere le già menzionate riduzioni d’orario o strumenti di riqualificazione professionale. Ma i Betriebsräte possono anche giocare d’anticipo, ad esempio attraverso i cosiddetti «accordi per il futuro» (Zukunftstarifverträge), previsti dal contratto collettivo nazionale delle industrie metalmeccanica ed elettrica e già adottati da numerose aziende nel settore automotive. Basati su analisi congiunte della situazione aziendale tra impresa e sindacato, tali accordi mirano non solo a proteggere l’occupazione, ma anche a proporre idee su investimenti, nuovi prodotti e miglioramento della competitività.
Ciononostante, le decisioni riguardanti le strategie aziendali restano una ben protetta prerogativa manageriale, esclusa dalle istituzioni della cogestione, sulla quale il sindacato può solo pensare di esercitare un potere d’influenza. Su di esse scarsa incidenza può avere anche l’altra forma di cogestione, ovverosia quella di tipo societario (unternehmerische Mitbestimmung), che prevede una pari rappresentanza di lavoratori e azionisti nel Consiglio di sorveglianza delle società per azioni con più di duemila dipendenti. Si tratta infatti di un sistema criticato fin dalla sua introduzione nel 1976 perché la sua architettura istituzionale è congegnata per garantire agli azionisti la prevalenza nelle fasi di stallo decisionale.
È questa la ragione del gap esistente tra la strategia di decarbonizzazione proposta da IG Metall a livello nazionale e le pratiche negoziali concrete del sindacato, specie a livello aziendale dove, nota sempre Keil, l’approccio consensualistico e corporativo alla transizione prevale sui progetti di conversione democratica. Il rischio, tuttavia, è che tale approccio finisca per rinsaldare il modello di sviluppo tedesco, in un momento in cui proprio il suo sfaldamento dovrebbe incoraggiarne una radicale messa in discussione. Specialmente nel settore automotive, infatti, proseguire ostinatamente sulla traiettoria upmarket significa mettere strutturalmente in contrapposizione la difesa dei diritti dei lavoratori con una reale conversione ecologica dell’industria automotive verso un paradigma di mobilità sostenibile.
Per questa ragione, la crisi di Volkswagen non può essere vista semplicemente come la crisi di un’azienda, per quanto grande, ma come l’epicentro di un sisma che sta travolgendo un intero modello produttivo e il suo connesso paradigma di mobilità. Di fronte a questo scenario, la strategia di limitazione dei danni e di contenimento dei rischi è una tentazione comprensibile per il sindacato, specialmente in un sistema di relazioni industriali dove essa si è storicamente dimostrata efficace nel proteggere i lavoratori. Allo stesso tempo, la stagnazione produttiva e l’assenza di prospettive di crescita rischiano di aprire crepe sempre più profonde nell’edificio istituzionale tedesco, minando i presupposti della cogestione. Se così sarà, il più potente sindacato al mondo dovrà decidere se continuare a difendere le proprie casematte o se provare a esercitare il suo potere in luoghi diversi dai tavoli di trattativa.
Giorgio De Girolamo è studente di Giurisprudenza all’Università di Pisa e si occupa di diritto del lavoro e diritto sindacale italiano e tedesco.
Angelo Moro è dottorando in sociologia e si occupa di lavoro, sindacalismo e innovazione tecnologica. Negli ultimi anni ha partecipato a ricerche collettive sul settore dell’auto in Italia.
3/1/2025 https://jacobinitalia.it/
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