Voucher, immersi nel sommerso
Ci viene raccontata ultimamente la favola che i voucher avrebbero il notevole pregio di fare emergere il lavoro sommerso. Si tratta di un argomento privo di reale fondamento e di prove a sostegno, e anche poco serio poiché confonde il tema del contrasto al lavoro sommerso – che richiede soluzioni “alte” ed evolute – con uno strumento rozzo e approssimativo come i voucher. Argomentazioni di questo genere riflettono la colpevole sottovalutazione della diffusione del lavoro irregolare e dell’evasione fiscale in Italia, che sono alla base dei disagi della nostra economia, della sua incapacità di innovare, della precarietà del mondo del lavoro e delle nostre pensioni. È un problema che meriterebbe invece approfondimenti non strumentali, in questo caso come si sa orientati a raccattare i cocci del fallimentare jobs act.
Entrando nel merito della questione, affermare che i voucher fanno emergere il lavoro sommerso può sottendere più significati. In una accezione puramente statica, si vuole rimarcare anzitutto il fatto che il lavoro retribuito con i voucher sarebbe stato comunque svolto ma in condizioni completamente sommerse. Pertanto, coperture anche solo parziali di queste prestazioni lavorative operate attraverso i voucher avrebbero il pregio di generare un’entrata previdenziale (e una copertura assicurativa) che altrimenti non ci sarebbero state. In questo caso i voucher assumerebbero la forma di un incentivo a dichiarare almeno una parte della prestazione lavorativa che in assenza di tale strumento sarebbe stata svolta interamente al nero.
In una accezione più dinamica si potrebbe sostenere che i voucher svolgono una funzione “educativa” e cioè che il lavoro emerso anche parzialmente con i voucher continuerà il suo processo di emersione nel corso del tempo. In altri termini, un rapporto di lavoro svolto con la copertura dei voucher, anche solo parziale, continuerà a svolgersi in caso di reiterazione con modalità almeno in parte emerse, eventualmente trasformandosi in tipologie contrattuali meno eteree. Letti in questo modo, i voucher avrebbero perciò un valore addirittura in quanto strumento di “politica del lavoro”, nel senso che sarebbero parte integrante di una strategia che, sebbene in maniera cauta, ha come obiettivo quello di ridurre l’area del lavoro nero, aiutando peraltro a connotarla attraverso la tracciatura del rapporto di lavoro che inevitabilmente si viene a palesare. Una strategia che invece o non c’è o, se c’è, è ben nascosta.
Ovviamente, ambedue le accezioni possono essere debitamente contraddette da argomentazioni di segno opposto, che fanno leva sulle informazioni disponibili e sul riconoscimento esplicito di che cosa è esattamente un voucher. Cominciamo da qui. Si tratta di un buono che al datore di lavoro costa 10 euro, di cui un quarto finiscono in contributi mentre la parte restante remunera con 7,50 euro netti il lavoratore per una attività lavorativa (presumibilmente non superiore a un’ora) svolta in un arco temporale definito dal datore di lavoro in termini di giornate (cioè dal giorno x al giorno y): il quarto versato in contributi assicura una copertura previdenziale e sugli infortuni sul lavoro valida per tutto quell’arco temporale. Il problema sta nel rapporto fra la dimensione dell’arco temporale sul quale è assicurata la copertura previdenziale e il valore dei voucher erogati per quella prestazione. Negli ultimi anni in media ognuno dei rapporti di lavoro (lavoratore-datore) pagati con i voucher durava circa 20 giorni ed era retribuito intorno ai 25 euro lordi al giorno, equivalenti cioè a non più di due ore e mezzo di lavoro retribuito. Nel 2011 l’arco temporale era di 70 giorni in media, ed era retribuito un po’ più di sette euro lordi (dunque molto meno di un’ora di media al giorno). La situazione è andata migliorando, tuttavia il trucco possibile è chiaro: il datore di lavoro ottiene una copertura previdenziale, cioè si mette in regola, retribuendo in maniera regolare anche solo una parte della prestazione lavorativa.
Questo in estrema sintesi è il voucher. Aggiungiamo qualche altro elemento legato al loro utilizzo. Più dell’80% dei lavoratori pagati con voucher lavorano per un solo datore di lavoro. Se ce ne fosse bisogno, questo aspetto configura il voucher come uno strumento utile ai datori di lavoro poiché la domanda di flessibilità da parte del lavoratore appare assai modesta. Ancora più importante è il fatto che più della metà dei lavoratori retribuiti con voucher ha avuto nello stesso periodo forme di occupazione dipendente, per lo più a tempo determinato e part-time, e molto frequentemente con lo stesso datore di lavoro. I fenomeni qui sono due: quando va (diciamo così) bene i voucher sembrano utilizzati per retribuire un periodo di prova senza troppo impegno da parte del datore, e nella peggiore delle situazioni (la più frequente) è il contratto da dipendente che si trasforma in voucher. Se si esclude un altro dieci per cento di lavoratori con voucher che appartengono alla galassia del lavoro autonomo (partite Iva o parasubordinati), resta meno del 30% dei lavoratori voucher che non ha altri contatti formali con il lavoro cosiddetto regolare. Una platea piuttosto ridotta.
In seguito a queste evidenze, la constatazione da fare è duplice. Da un lato i voucher pescano soprattutto nel lavoro che è già emerso. Dall’altro pescano nel bacino del lavoro dipendente, mentre la sovrapposizione con i contratti classici del lavoro atipico come i cococo/cocopro è tutto sommato marginale. Quest’ultimo punto, suggerisce che i voucher non sono affatto uno strumento che soddisfa la carenza di forme contrattuali per impieghi occasionali e sommersi ma, nell’interpretazione data nei fatti dai fantasiosi datori di lavoro nostrani, sono stati in larga parte uno strumento che sostituisce e peggiora le forme più precarie del lavoro dipendente. Si può dire che i voucher finiscono col rappresentare una forma contrattuale appetibile per il datore di lavoro, sia in quanto occasione per trasformare rapporti di lavoro dipendente, sia come formula a basso rischio per governare il reclutamento di lavoro dipendente. In ambedue i casi, non avrebbe nulla a che fare con il lavoro sommerso e molto a che fare con l’emerso.
Aggiungiamo altre evidenze emerse negli studi che cominciano a essere pubblicati sull’argomento. I voucher non corrispondono allo stereotipo del lavoratore agricolo o del piccolo artigiano che ci fa le riparazioni in casa. L’80% delle ore retribuite con voucher vedono come datore di lavoro imprese dell’industria e dei servizi (sono più di 100 mila), la cui dimensione media è significativamente più alta rispetto alla media delle imprese italiane: non sono solo quelle piccolissime. È vero che la metà operano nel commercio e negli alberghi, ma è ben rappresentata anche l’industria, compresa quella metalmeccanica (se ne è già parlato). Inoltre, le imprese che cominciano a usare i voucher mostrano di apprezzare lo strumento, e continuano a usarlo: e spandono la voce.
Riepilogando, dal momento che i voucher offrono la possibilità con pochi vincoli di trasformare in formalmente regolare qualsiasi prestazione lavorativa che si svolga nell’intervallo di tempo di validità e indipendentemente dal numero di ore che retribuiscono, essi rappresentano uno strumento che offre garanzie soprattutto al datore di lavoro. Costui, in sostanza non incorrerebbe più in sanzioni se assicura una porzione anche minima della prestazione lavorativa di cui usufruisce. In questo senso, più che come strumento per favorire l’emersione, con almeno pari legittimità il voucher potrebbe essere invece letto come uno strumento che finanzia, e anzi legittima, l’evasione contributiva in cambio di un piccolo obolo (volendo essere paradossali, è una specie di tangente). In quest’ultima veste dunque il voucher non avrebbe nessun valore come politica a sostegno dell’emersione, soprattutto perché esso stesso non è parte (anche solo una piccola parte) di una più ampia e decisa azione di contrasto – che faccia leva ad esempio anche sulle informazioni che derivano dalla banca dati che, nel frattempo, si è andata accumulando sui voucher.
In sostanza, il tema dei voucher riguarda non solo e non tanto la valutazione dello strumento in sé (in termini di costo-opportunità, ad esempio, visto che a spanne nel 2016 il monte contributivo annuo raccolto con i voucher dovrebbe ammontare intorno ai 300-400 milioni) quanto piuttosto la valutazione di questo strumento nell’ambito delle politiche di contrasto al lavoro irregolare. E allora diventa importante chiedersi alcune cose. Anzitutto, siamo sicuri che i voucher abbiano ridotto la componente non regolare?
Questa tesi è veramente debole. Secondo le ultime stime dell’Istat il lavoro irregolare sta aumentando e rappresenta più del 15% del lavoro che contribuisce alla formazione del prodotto interno lordo. Grosso modo in un anno ci sono circa 4 miliardi di ore lavorate non regolari, più di migliaio di ore lavorate all’anno pro capite. Nel 2014 le ore retribuite con i voucher costituivano meno del 2% di questo ammontare. Il ruolo dei voucher appare francamente molto debole e ridimensionato ma la tendenza a enfatizzarlo è rivelatrice del fatto che chi lo sostiene non sa proprio di cosa sta parlando: associare i voucher al contrasto al lavoro nero è operazione goffa e in malafede, ed è soprattutto controproducente.
Siamo sicuri che i voucher non siano piuttosto andati a rendere sommerso ciò che era già emerso? E’ senz’altro vero che chi lavora con voucher ha molti caratteri di contiguità con le caratteristiche del lavoratore irregolare: bassi tassi di occupazione, struttura per età e familiari un po’ più esposte al rischio, livelli di formazione in prevalenza medio-bassi, una crescente incidenza del mezzogiorno. E’ una platea che sperimenta, per le sue caratteristiche, tassi di irregolarità doppi o tripli rispetto alla media: nessuno può negare che i voucher colgono una platea di lavoratori più esposta al rischio di lavorare in maniera irregolare. Ma questa platea è la stessa ad essere più esposta a forme di occupazione instabili e ”atipiche”, inclusi i voucher: nel voucher non c’è redenzione. L’osmosi fra lavoro dipendente e voucher, richiamata in precedenza, è rivelatrice di quanto rischioso sia ignorare l’effetto perverso dei voucher. Circa metà delle ore lavorate da chi viene retribuito con voucher viene lavorata di fatto al nero: sono ore in più rispetto a quelle pagate con i voucher, e vengono perciò – eventualmente – retribuite con una quota di “fuori busta” (o meglio “fuori voucher”).
Chi viene retribuito con voucher rientra definitivamente nella componente regolare del mercato del lavoro? Le cose non sembrano andare così, e infatti le evidenze dicono altro. Le caratteristiche dei lavoratori che hanno lavorato con voucher non migliorano nel corso degli anni. I tassi di occupazione restano molto più bassi della media e resta la forte contiguità con l’area grigia dell’inattività, quella scoraggiata ossia esattamente la componente dell’offerta di lavoro che risente negativamente dell’assenza di politiche di incontro fra domanda e offerta e di politiche del lavoro moderne e sviluppate sui territori.
Vale infine la pena di sottolineare un ulteriore punto molto importante. La versione della favola per cui “i voucher favoriscono l’emersione del lavoro irregolare” risente in parte della visione stantia del lavoro sommerso come un oggetto “omogeneo”: da un lato, il lavoro regolare e dall’altro il sommerso, o si è l’uno o si è l’altro. Nei paesi europei e in Italia, anche su sollecitazione delle Commissione Ue, l’attenzione degli studiosi della cosiddetta “economia non osservata” si è andata via via concentrando sulla natura eterogenea del lavoro irregolare. Le moderne fonti informative rendono sempre più evidente l’esistenza di varie tipologie di occupato irregolare fondate sia su caratteri per così dire strutturali (fra i più classici l’età, il genere, la cittadinanza, il territorio, le strutture familiari) sia sui percorsi individuali (formativi e soprattutto lavorativi) sia su quelli di policy (fra tutte, la presenza – o meglio l’assenza – di reti territoriali di raccordo fra domanda e offerta di lavoro). Ma soprattutto, per una quota rilevante di individui, le condizioni di regolarità e irregolarità convivono nel corso dell’anno attraverso frequenti passaggi dall’una verso l’altra e viceversa: ed è evidente che per effetto di questa osmosi gli elementi di eterogeneità crescono assai. Non è questo il solo effetto che accresce la complessità del mondo del lavoro sommerso: occupazione emersa e sommersa possono convivere non solo per i “secondi lavori” ma anche all’interno di una occupazione regolare. Si tratta del cosiddetto lavoro “grigio”, retribuito parzialmente fuori busta evadendo la contribuzione: l’incidenza del falso part-time ne è un segno piuttosto chiaro. La componente “grigia” aggiunge ovviamente fattori di eterogeneità, e la diffusione di occupazioni “atipiche” è da anni il migliore stimolo alla diffusione di questo grigiore. I voucher ne sono l’archetipo.
Il contesto eterogeneo del lavoro sommerso se da un lato restituisce la complessità degli elementi da considerare per la valutazione dei voucher dall’altro porta a rifiutare nettamente visioni semplicistiche del tipo “con i voucher emerge ciò che era sommerso”. Data la natura eterogenea di quel mercato, c’è come minimo da attendersi il convivere di sommerso che emerge e di emerso che si sommerge, in un contesto nel quale l’effetto di emersione dei voucher è comunque una componente nel migliore dei casi minimale e poco significativa. Se la questione che si voleva affrontare con i voucher era davvero il contrasto all’emersione, allora vale la pena di essere chiari: i voucher sono uno strumento per lo meno offensivo, dannoso, falsamente ingenuo, rozzo e comunque inadatto alla peculiare complessità del mercato del lavoro italiano e fondamentalmente “diseducativo”, anche perché non è stato accompagnato, e non lo è neanche in prospettiva, da politiche del lavoro organiche mirate al contrasto al lavoro sommerso. Uno strumento insomma non riformabile, e adatto – quello sì – solo a ledere diritti.
Ciccio De Sellero
17/1/2017 www.fiom-cgil.it
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