Voucher, no referendum per non cambiare niente
Tirare la pietra e nascondere la mano. Questo l’atteggiamento del governo e del PD, trovatisi costretti ad abolire i voucher. Messi all’angolo dalla sconfitta dello scorso 4 dicembre con il referendum costituzionale e dalla pressione che proveniva dal referendum della Cgil su quello per l’abolizione dei voucher, il Partito democratico e l’esecutivo retto dal prestanome di Renzi, Paolo Gentiloni non hanno potuto far altro che intervenire per eliminare i buoni lavoro dalla normativa in materia di lavoro. Ma subito Gentiloni ha cercato di sottrarre il governo dalle conseguenze della ritirata, sostenendo che “lo strumento dei voucher si era deteriorato e non era uno strumento attraverso il quale, se non per situazione molto specifiche, si poteva dare una risposta efficiente e moderna”. In sostanza, una “risposta sbagliata ad un’esigenza giusta”. Detta altrimenti e con Poletti, quello del governo “non è un cambio di rotta perché noi i voucher non li abbiamo mai fatti, ce li siamo trovati e quando siamo intervenuti abbiamo messo la tracciabilità, quindi li abbiamo ridotti”. A conferma che il governo Gentiloni è di fatto un governo Renzi che si è dato un tono più sobrio, si noti che le parole usate dal ministro del Lavoro altro non sono che l’eco di quelle dell’ex e prossimo segretario del PD, il quale ha affermato che i voucher “sono stati inventati dal governo Prodi, con Damiano ministro del Lavoro” e che “i voucher con il Jobs act non c’entrano niente”.
È risaputo che in realtà il governo Renzi, con il Jobs act, ha completamente liberalizzato l’utilizzo dei voucher. Ma quello che preme all’ex presidente del Consiglio, è scaricarsi dalla responsabilità di aver reso estremamente più precari i rapporti di lavoro anche in vista di una prossima tornata elettorale, che allo stato attuale, tra pressioni sociali e malumori nella coalizione di governo, non è scontato che non possa avvenire prima della scadenza naturale della legislatura. Di più: non è scontato che questa che potrebbe essere una finta ritirata del governo sui voucher non sia espressione della volontà di Renzi di andare al voto subito dopo il congresso del PD, portando a termine, vittoriosamente, lo scontro interno al suo partito. La necessità di Renzi, oggi e quella del padronato di cui è espressione, è perciò il raffreddamento delle tensioni sociali. Gentiloni, d’altronde, è stato abbastanza esplicito in questo senso, affermando che la linea dell’esecutivo è stata orientata a evitare di “dividere il Paese” ed “evitare guerre ideologiche”. Non a caso la risposta ai malumori industriali sull’abolizione dei voucher è arrivata immediata, sia dal governo che dal PD.
È venuta fuori, intanto, tutta l’ipocrisia dei difensori dei voucher, con i loro piagnistei sulle famiglie che non saprebbero più come tenere in regola una collaboratrice domestica, come se i buoni lavoro fossero uno strumento utilizzato solo per loro. In realtà, come emerso poche settimane fa, i buoni lavoro sono stati utilizzati soprattutto da grandi imprese ed enti locali. Si tratta di meno del 2% dei lavoratori occupati, dicono quelli che vorrebbero ridurre la portata della questione. Allora perché sollevare un polverone sulla loro abolizione? Intanto perché, mettendo insieme i dati, risulta che ogni tre lavoratori assunti a tempo indeterminato (ma con ben poche tutele, dopo riforma Fornero e Jobs Act), ce n’è uno che non trova altro che un impiego pagato con voucher. A ciò si aggiunga un significativo effetto di sostituzione (pari al 10%) di precedenti rapporti di lavoro con il ricorso ai buoni lavoro e si noterà come il fenomeno voucher sia stato ampio ed in crescita, e come questo abbiaaumentato il grado di precarietà a cui sono soggetti i lavoratori, sempre più costretti ad accettare condizioni di lavoro precario e sottopagato. Senza contare come i buoni lavoro fossero uno strumento che poteva essere usato per nascondere il lavoro nero. Tra l’altro, l’inefficacia dei voucher per l’emersione del lavoro nero è stata descritta anche dall’Inps e pertanto risultano pretestuose pure le dichiarazioni di parte padronale per cui con la loro abolizione si rischierebbe un aumento del sommerso.
L’importante, per il padronato, è di avere a disposizione strumenti che, nei rapporti di forza tra le classi,mantengano il dominio dell’impresa sui lavoratori. Ed infatti si parla già di tornare ad uno strumento sul modello dei voucher per le famiglie e qualcosa a metà strada tra il lavoro a chiamata ed i buoni lavoro per le imprese. Insomma, ad uscire dalla porta per rientrare dalla finestra è la tanto cara (per il padronato) flessibilità. Il passo indietro, in questo senso, non è nelle intenzioni né del governo né del PD, così disponibili a venire incontro ai desiderata delle imprese. Se venisse concretizzata questa ipotesi, per i lavoratori cambierebbe poco, dal momento che di fondo rimarrebbe per loro la costrizione alla piena disponibilità dell’impresa.
È proprio questo che rivendicano le categorie padronali: l’autorità di disporre dei lavoratori secondo le proprie necessità. Una disponibilità, peraltro, già pienamente in loro mani. Ricordate il famigerato articolo 8 della manovra di Ferragosto 2011? Non se ne parla più, ma è ancora lì, nell’ordinamento giuridico, a consentire alle imprese di derogare contratti e leggi, per avere massima flessibilità su organizzazione del lavoro e della produzione, licenziamenti inclusi. Non bastava, e allora la liberalizzazione dei voucher aveva fornito il padronato di uno strumento che non dovesse nemmeno considerarsi una deroga a condizioni ordinarie. L’ordinarietà, in sostanza, era la stessa piena disponibilità dei lavoratori alle esigenze aziendali, a tal punto da poter acquistare una prestazione di lavoro come fosse un pacchetto di sigarette. L’ordinarietà era il poter disporre di lavoratori privati delle più elementari forme di tutela. E con tutta probabilità, nelle ipotesi di governo è quella ordinarietà che si pensa di mantenere.
Nel frattempo si è dispiegato il tentativo di congelare l’ipotesi di una lotta, quella per l’abolizione dei voucher, che avrebbe potuto assumere, se ben condotta, una valenza politica più ampia di lotta alla precarietà e conseguentemente di avanzamento della classe dei lavoratori nei rapporti di forza con il padronato. Il rischio, nella fase attuale, è che i soggetti politici e sindacali che siederanno al tavolo delle trattative possanoaccontentarsi di ottenere una qualche forma di tutela per i lavoratori (magari qualche concessione sui contenuti della Carta dei diritti universali del lavoro promossa dalla Cgil) che governo, padronato e suoi rappresentanti politici (PD in testa) potrebbero usare come foglia di fico di immutate condizioni sostanziali dei lavoratori.
“A pensar male si fa peccato, ma spesso si indovina”, diceva uno che se ne intendeva. Ed oggi, dopo un triennio di Renzi che ha frantumato i corpi intermedi, per sindacati concertativi e “sinistre di governo” abbandonare il campo della lotta per recuperare un ruolo di interlocutori con governo e padronato può essere una prospettiva allettante. A quel punto, però, a rimetterci sarebbero solo i lavoratori, che si ritroverebbero con piccole concessioni sulle tutele che porterebbero con sé l’accettazione di obblighi nei confronti delle imprese. Ciò significherebbe, inevitabilmente, piena disponibilità alla flessibilità. Niente di nuovo rispetto a quanto viene imposto da troppi anni.
Questa che appare una ritirata strategica del governo sui voucher potrà rappresentare un avanzamento per i lavoratori solo nel caso in cui se ne coglierà il valore politico e non solo rivendicativo. Non bisognerà, cioè, accontentarsi di questa prima vittoria; sulla spinta dei risultati del referendum del 4 dicembre e della minaccia di una mobilitazione referendaria su voucher e appalti, non si dovrà abbandonare la lotta più generale contro la precarietà. In sostanza, bisognerà non accontentarsi di vedere riconosciuto un diritto dentro un recinto di compatibilità con le pretese padronali, che non produrrebbe alcun reale miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori. Semmai, nella crisi di legittimità da cui i centri di potere ancora non riescono ad uscire, si possono e devono portare avanti lotte che riescano a ricompattare “una comunità di destino”, per determinare una rottura di quel recinto di compatibilità.
Carmine Tomeo
25/3/2017 www.lacittafutura.it
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