Welfare State nell’egemonia neoliberale
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Di Monica Quirico
Il dibattito sul rapporto tra pubblico e privato nella gestione dei servizi sociali ha una storia secolare, in Svezia; le origini possono infatti essere datate al 1600. Da allora, si sono alternate fasi di viva attenzione per il tema a periodi di sostanziale indifferenza. La situazione è cambiata radicalmente quando, a partire dagli anni Novanta, la privatizzazione si è infiltrata pesantemente anche in quello che era considerato l’esempio più riuscito di Welfare State universalistico: aggettivo, questo, che designa delle prestazioni destinate a tutti, a differenza dell’elemosina concessa esclusivamente ai “poveri”, o delle prebende elargite ai protetti, dallo Stato assistenziale-clientelare. In Svezia al contrario si innescava un circolo virtuoso: la qualità dei servizi convinceva la classe media che valeva la pena accettare una pressione fiscale tra le più alte al mondo per finanziare il Welfare; a sua volta, il sostegno di ampi strati della popolazione permetteva di coltivare obiettivi ancora più ambiziosi, migliorando il livello dei servizi sia quantitativamente sia qualitativamente. L’ampia copertura che offrivano le politiche sociali sottraeva, grazie alla cosiddetta demercificazione, un numero cospicuo di cittadini alla dipendenza dal mercato e – nel caso delle donne – dalla famiglia. Proprio sul Welfare pubblico i socialdemocratici, che ne erano stati gli artefici, costruivano quell’alleanza tra classe media e classe operaia che garantiva loro una indiscussa primazia, con una longevità politica (rimanendo ininterrottamente al governo dal 1932 al 1976) e un’ampiezza di consenso elettorale – e culturale – che non hanno equivalenti nella storia dei paesi democratici.
Un’epitome straordinariamente evocativa della centralità del Welfare nella cultura politica nazionale era lo spot realizzato dal Partito socialdemocratico per la campagna elettorale del 1988 (due anni dopo l’omicidio di Olof Palme). A Londra si incontrano un anziano gentiluomo inglese – elegante, snob – e un’anziana signora svedese, semplice ma curata. I due si presentano: il gentleman snocciola tutti i titoli onorifici che gli sono stati conferiti (la carica di lord, la laurea a Oxford e così via); la signora svedese replica con tre parole: nome e cognome, Elsa Svensson, e ATP, l’acronimo del sistema pensionistico approvato dai socialdemocratici nel 1958. In altre parole, mentre l’inglese si vanta di riconoscimenti individuali, ciò di cui la svedese è orgogliosa è una conquista collettiva. Tuttavia l’ATP, che era il fiore all’occhiello del Welfare svedese, non esiste più; dagli anni Novanta le pensioni, in virtù di una riforma frutto dell’accordo fra i socialdemocratici e i quattro partiti “borghesi” (come sono ancora oggi chiamati in Svezia i partiti di centrodestra) sono collegate a fondi azionari.
Proprio negli anni Ottanta si avvertivano i primi segnali della controffensiva delle forze di mercato, sull’onda dell’ascesa globale del neoliberalismo. Emblematica del nuovo clima era l’approvazione, nel 1984, della Lex Pysslingen, con cui i socialdemocratici vietavano l’erogazione di fondi pubblici ad asili gestiti da privati. Eppure in quegli stessi anni si compiva una svolta epocale: il secondo governo Palme (1982-1986) varava la “terza via”, una politica economica (il cui capofila era il ministro delle finanze Kjell-Olof Feldt, il grande affossatore dei fondi dei salariati) che in nome della lotta all’inflazione puntava sulla svalutazione e la moderazione salariale.
Si spianava così la strada all’abbandono di un caposaldo del modello svedese: la piena occupazione, presupposto del finanziamento pubblico del Welfare, il cui ridimensionamento cominciava proprio in quel periodo, per poi essere portato avanti dal successore di Feldt, Allan Larsson. Questi, in un articolo che può essere considerato il vero e proprio manifesto della conversione al neoliberalismo della socialdemocrazia svedese, scriveva nel 1991 (l’annus horribilis dell’economia svedese): “abbiamo imparato la lezione […]. Per difendere l’occupazione e il Welfare occorre che la lotta all’inflazione preceda ogni altra ambizione e istanza”. In realtà quest’ultima – la lotta all’inflazione – diventerà un fine in sé, perseguito a scapito dei salari e dei posti di lavoro.
Nel 1992 la Lex Pysslingen veniva abrogata da un governo di centrodestra, in concomitanza con l’acuirsi delle pressioni per la “libertà di scelta”: una torsione reazionaria di quella critica da sinistra del Welfare che negli anni Sessanta-Settanta ne prendeva di mira la burocratizzazione dei bisogni. Da allora si è registrato un vero e proprio smottamento, che ha fatto della Svezia uno dei paesi dell’OCSE in cui negli ultimi tre decenni le diseguaglianze sono cresciute di più (anche se resta uno dei paesi con il minor divario di reddito) e la privatizzazione di alcuni settori, innanzitutto la scuola, ha assunto dimensioni oltranziste. A questa metamorfosi hanno contribuito prepotentemente le politiche dei governi guidati dal leader del Partito conservatore Fredrik Reinfeldt (al potere dal 2006 al 2014), il quale, sotto la bandiera del “siamo noi il vero partito del lavoro”, ha impresso una spallata decisiva alla conversione del Welfare in Workfare, abbassando al contempo le tasse per i ricchi.
Tra il 2011 e il 2012 esplode lo scandalo Carema, dal nome di una compagnia sanitaria privata i cui standard di qualità nelle residenze per anziani, si scopre, sono alquanto carenti, anche se ciò non le ha impedito di accumulare profitti crescenti. Nel 2014 così come nel 2018 i “profitti nel Welfare” (così è chiamato il dibattito) sono uno dei temi caldi della campagna elettorale – e lo stesso si può dire di quella in corso (si vota a settembre). I sostenitori dell’attuale sistema mercatocentrico fanno leva sull’importanza della “libertà di scelta” e sulla necessità per le compagnie private di ricavare profitti (illimitati) dai servizi, la cui gestione altrimenti non sarebbe finanziariamente sostenibile. Puntano inoltre il dito – ricorrendo all’argomento che l’élite utilizzava già nel Seicento – contro il rapporto qualità-prezzo del Welfare pubblico, considerato altamente insoddisfacente. Non sono mancati, da questo fronte, i consueti anatemi: la Confindustria accusa chi si oppone ai profitti di violare la sacralità della proprietà privata, mentre l’Associazione delle compagnie sanitarie private ha tirato fuori la dicotomia: libertà di scelta vs. DDR. I contrari denunciano il meccanismo perverso per cui sono le tasse a finanziare i servizi sociali, ma a guadagnarci sono i privati; detto altrimenti, i soldi pagati dalla collettività non restano nel circuito del Welfare, per migliorarne la qualità, venendo al contrario capitalizzati dai privati.
Ad alimentare ulteriormente le polemiche sul Welfare è intervenuta la pandemia. Come è noto, la Svezia ha scelto, per motivi legati alla sua Costituzione, alle contingenze politiche e alla cultura nazionale, una linea fondata sulla fiducia dei cittadini nelle indicazioni dell’Agenzia della salute pubblica e, in seconda battuta, del governo (socialdemocratico), anziché sui divieti. Il tasso di mortalità è risultato molto più alto che negli altri paesi nordici, ma molto più basso di quello raggiunto in quei paesi (come l’Italia) che hanno adottato le misure più restrittive.
Le conclusioni della Commissione Corona – incaricata dal governo, con l’approvazione di tutti i partiti presenti in parlamento, di valutare la gestione dell’emergenza Covid – non hanno bocciato la scelta, tanto criticata all’estero, di non imporre lockdown, scorgendovi al contrario una posizione rispettosa dei diritti e della salute psicofisica dei cittadini (naturalmente i media italiani, che hanno criminalizzato la Svezia per due anni, di questa indagine non hanno dato conto). Il rapporto della Commissione tuttavia ha confermato le criticità emerse già nei primi mesi della pandemia, legate a carenze nel Welfare che sono state aggravate dallo scarso coordinamento tra comuni, regioni e governo centrale. Già, ma quale Welfare?
Il pubblico o il privato? Se si guarda alle residenze per anziani (teatro di una vera e propria strage), si nota come in termini di diffusione del contagio e di mortalità non vi siano state differenze tra strutture pubbliche e private. La scarsa disponibilità di dispositivi di protezione, le informazioni tardive e contraddittorie al personale, spesso assunto con contratto a tempo determinato (quindi con forte turnover) e con bassa formazione, non sono stati una pecca esclusiva del “parassitario carrozzone pubblico” – che peraltro ormai da molti anni è asservito alla logica aziendalistica del New Public Management. Nella sanità il privato non ha affatto dato prova di essere più efficiente e di fornire una qualità superiore, anzi. Lo stesso vale per gli altri settori del Welfare.
L’esperienza della pandemia ha naturalmente infuocato il confronto tra sostenitori e oppositori dei profitti nel settore dei servizi. Degno di nota è che nessuno osi mettere in discussione il “modello svedese”, di cui il Welfare costituisce uno dei pilastri; a testimonianza di quanto esso sia ancora fondamentale nella lotta per l’egemonia, tutti cercano di appropriarsene (soprattutto in periodo pre-elettorale), compresi i partiti di centro e di destra, che pure spingono per la privatizzazione a oltranza. Peculiare è la posizione dei cripto-nazisti Democratici di Svezia (i populisti di destra), che rivendicano di essere gli unici veri custodi del modello svedese, pur osteggiando il divieto di profitti nel Welfare (Welfare che, nelle loro intenzioni, sarebbe riservato agli “autoctoni”). Sull’altro fronte, il Partito della sinistra per un verso mantiene una retorica anticapitalistica, per un altro verso si pone a sua volta come l’erede della socialdemocrazia dei bei tempi andati, imperniando la sua strategia su un rinnovato interventismo statale, nelle politiche sociali come nella programmazione economica. È l’unico a battersi, senza se e senza ma, perché siano proibiti i profitti nel Welfare. I Verdi, alleati di governo dei socialdemocratici fino a pochi mesi fa, non senza ambiguità criticano i profitti ricavati dai servizi sociali, chiedendo che, anziché finire in mani private, siano reinvestiti nel miglioramento della qualità dei servizi stessi, senza tuttavia farsi esplicitamente promotori di un divieto.
Il partito socialdemocratico è quello che si cimenta nel più arduo equilibrismo. Ha contribuito non poco a smantellare le politiche sociali (e quelle del mercato del lavoro), continuando tuttavia a ostentare il copyright del modello svedese (che ha anche chiesto per via legale). Pur di formare un governo, è stato pronto a sacrificare la questione dei profitti nel Welfare sull’altare del cosiddetto “accordo di gennaio” (2019), vincolandosi così all’appoggio di due partiti del centrodestra, quello liberale e quello di centro. Dopo la crisi di governo dello scorso autunno, la nuova leader del partito, e prima ministra, Magdalena Andersson affronta una campagna elettorale che potrebbe essere segnata dalla spinosa questione della NATO (a meno che il governo non acceleri i tempi, proprio per levarsela di torno) e sarà sicuramente ammorbata dall’allarme mediatico sulla criminalità (degli immigrati, ça va sans dire). Per giunta, occorre fare i conti con un’opinione pubblica largamente contraria – lo dimostrano da anni i sondaggi – a permettere ai privati di lucrare sul Welfare. In questo scenario, i socialdemocratici scelgono ancora una volta un posizionamento ambiguo: i profitti dovrebbero essere proibiti nella scuola (il settore dove la privatizzazione ha fatto più danni) ma più modestamente “ridimensionati” negli altri ambiti; viene altresì ribadita la funzione dei privati nel Welfare. Si tratta semplicemente di controllarli meglio, insomma: a questo sembra ridursi lo slogan “la società deve riprendere il controllo democratico sul Welfare”. E poiché questa vaga formulazione forse non è abbastanza per riconquistare un elettorato alquanto disilluso (e spaccato sulla questione NATO), che si sposta un po’ a sinistra, un po’ (tanto) verso i populisti di destra, il Partito socialdemocratico ricorre ai colpi a effetto. Ecco allora che, mentre il Partito della sinistra (il cui appoggio esterno è fondamentale per la sopravvivenza del governo) si fa promotore prima di un significativo aumento delle pensioni più basse e ora di una generale riforma del sistema pensionistico, giudicato fallimentare, i socialdemocratici lanciano la proposta di ripristinare l’aumento dell’indennità di disoccupazione che era stato approvato nei primi mesi della pandemia ed è poi decaduto con il 2022. Altri conigli spunteranno dal cilindro, da qui a settembre, in un’apparente unità di intenti (sul Welfare, ma non sulla NATO) tra i due partiti che potrebbe sbriciolarsi rapidamente, in caso di vittoria alle elezioni.
Monica Quirico, dottore di ricerca in Storia delle dottrine e delle istituzioni politiche presso l’Università «La Sapienza» di Roma, collabora con il dipartimento di Studi politici dell’Università di Torino ed è «honorary research fellow» dell’Istituto di Storia contemporanea della Södertörn University di Stoccolma. È autrice di Collettivismo e totalitarismo: F. A. von Hayek e Michael Polanyi (1930-1950), (Franco Angeli, 2004) e de Il socialismo davanti alla realtà. Il modello svedese (1990-2006), (Editori Riuniti University Press, 2007); ha inoltre curato Tra utopia e realtà. Olof Palme e il socialismo democratico. Antologia di scritti e discorsi (Editori Riuniti University Press, 2009).
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